Mascherine taroccate importate dalla Cina. Sotto accusa una società italiana che ha rifornito una farmacia. Legittimo, di conseguenza, il sequestro probatorio della merce (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 5607/21; depositata il 12 febbraio).
A maggio 2020 il P.M. del Tribunale convalida «il sequestro probatorio avente ad oggetto ventiquattro confezioni contenenti ognuna cinquanta dispositivi KN 95 FFP2 per complessivi mille e duecentoventi pezzi». Neanche un mese dopo il provvedimento viene confermato dal Tribunale del riesame.
Legittimo, quindi, il blitz compiuto dalla Guardia di Finanza nei confronti del titolare di una società italiana, «indagato per frode nell’esercizio del commercio» e accusato di «aver importato per la vendita quattromila e ottocento mascherine filtranti prodotte in Cina e caratterizzate da un marchio ‘CE’ contraffatto, attestante quindi falsamente i requisiti di sicurezza stabiliti dal regolamento dell’Unione Europea».
Per l’avvocato dell’imprenditore, però, il sequestro delle mascherine va messo in discussione.
In quest’ottica, il legale pone in evidenza, innanzitutto, che «è consentito commercializzare il prodotto a coloro che rientrano nelle categorie lavorative che non necessitano dell’uso dei dispositivi di protezione individuale».
Ciò che conta, però, secondo il difensore è «l’assenza di colpevolezza» nella condotta del suo cliente, che «non era consapevole dei profili di illiceità del prodotto ricevuto e poi venduto». A questo proposito, il legale sostiene che l’imprenditore italiano «è stato non l’artefice del reato contestato, ma al più la vittima di un raggiro da parte dell’azienda fornitrice, provenendo da essa la certificazione dei beni quali dispositivi di protezione individuale, e avendo lui avuto conoscenza del problema solo all’esito del giudizio di inidoneità pervenuto dall’INAIL, cui aveva inoltrato la scheda di validazione dei prodotti, e intervenendo immediatamente sulle forniture effettuate ai clienti, con blocco dei pagamenti e ritiro delle mascherine, da indirizzare verso altre categorie di lavoratori non rientranti tra quelle bisognevoli dei dispositivi di tipo medico».
Il legale rilancia anche l’ipotesi della «restituzione dei beni sequestrati», poiché, osserva, ci si trova di fronte «non ad una contraffazione di marchi, bensì ad una diversa condizione di apposizione del marchio ‘CE’ da parte di una società apparentemente irregolare», e fermo restando che «il legislatore, con l’articolo 15 del decreto legge numero 18 del 2020, ha escluso profili di illiceità penale rispetto alle condotte di importazione e di immissione in commercio di dispositivi che non rispettino le normative ordinarie».
Le obiezioni difensive non convincono però i Giudici della Cassazione, che ritengono corretta, invece, la decisione presa dal Tribunale del riesame.
Significativo, innanzitutto, il riferimento alle «risultanze investigative cristallizzate nel verbale di sequestro della Guardia di Finanza, da cui è emerso che i dispositivi oggetto di cautela reale facevano parte di un più ampio lotto di quattromila e ottocento mascherine provenienti da una ditta cinese. Esse erano contenute in confezioni sulle quali vi era una dicitura che le faceva apparire come mascherine FFP2, con il marchio CE sovrapposto. A corroborare tale dicitura vi era inoltre una documentazione tecnica, tra cui un ‘certificate of compliance’ apparentemente rilasciato da una società di certificazione, volto ad attestare la conformità dei dispositivi di protezione agli standard di qualità e sicurezza imposti dalla normativa europea». In realtà, «tale certificazione è risultata non genuina, non essendo l’ente abilitato a rilasciare questo tipo di certificazioni per quel tipo di dispositivi e avendo in ogni caso la società presentato denunce per l’utilizzo abusivo del proprio nominativo».
Consequenziale «la sottoposizione dei dispositivi in esame a sequestro, essendo stato altresì accertato che la ditta italiana destinataria della fornitura dei mille e duecentoventi dispositivi aveva già posto in commercio le mascherine in questione proprio come ‘FFP2’», come confermato dal «titolare di una farmacia, il quale ha prodotto la documentazione commerciale relativa appunto a tale acquisto».
Plausibile, quindi, secondo la Cassazione, l’accusa di «frode nell’esercizio del commercio», avendo la società italiana «commercializzato i dispositivi di protezione sequestrati ingenerando negli acquirenti il ragionevole convincimento che essi rispettassero determinanti standard qualitativi», invece non sussistenti.
E per i Giudici va anche esclusa l’ipotesi della buonafede dell’imprenditore italiano. Ciò perché «egli, quando ha fornito le mascherine alla farmacia, vendendole come se fossero ‘FFP2’, aveva già investito l’INAIL della richiesta di accertare la conformità dei dispositivi alla normativa emergenziale» e quindi ha compiuto la vendita «senza attendere la risposta dell’INAIL, che infatti fu negativa».
Assolutamente legittimo, quindi, secondo i magistrati, il sequestro delle mascherine.